Il Project Coaching è un viaggio

Sviluppo Team, Team

Per capire il “Why?” di un project coaching di Exeo non c’è niente di meglio che confrontarsi con chi lo ha vissuto in prima persona. Nicole, project leader di una importante azienda IT, ci racconta la sua esperienza. Dalle iniziali resistenze a nuovi stati d’animo: un vero e proprio viaggio intrapreso insieme al suo team

“Scetticismo. Questa è stata la mia prima reazione quando in azienda mi hanno parlato della possibilità di sperimentare un percorso di project coaching con il supporto di Exeo. Io ero la leader del progetto e il mio timore più grande era quello di perdere tempo. Avevamo scadenze serrate ed ero sicura che lavorare con la supervisione di un coach avrebbe rallentato il flusso. Altra paura, più latente, era quella di perdere il controllo sul team e di vedere la mia leadership messa in discussione. In entrambi i casi, mi sbagliavo.

Il coaching che ottimizza i tempi

Durante la prima riunione di project coaching mi sono resa conto di aver sottovalutato la valenza del termine project. Rispetto alle tradizionali sessioni di coaching a cui avevo partecipato in passato, qui c’era un focus molto preciso e pragmatico sul progetto che stavamo portando avanti, con un 50% delle sessioni dedicate al contenuto del progetto e un 50% di riflessione e confronto.

Per metà riunione il coach ascolta, prende appunti, aiuta il team a schematizzare alcuni concetti. Le interruzioni sono rare, fatte per lo più per porre domande, ad esempio sulla gestione del tempo o sugli impatti di lungo periodo di alcune scelte o sui rischi potenziali.

Durante la seconda metà si passa al ragionare e confrontarsi sul come e perché si sta lavorando sul progetto, ragionando sulle modalità migliori per raggiungere gli obiettivi e sul contributo di ognuno. Il mio timore di “perdere tempo” era quindi scongiurato. Tutto era focalizzato sul progetto in corso.

L’importanza di conoscere il Why

Ben presto mi sono accorta di quanto, negli ultimi anni, mi fossi orientata sempre di più sul “fare” e sull’operatività quotidiana. Ed è così che avevo guidato i miei team a lavorare sul What, raramente sull’How, mai sul Why. Perché?

Inerzia, pressione sul risultato, carichi di lavoro imponenti e tempistiche strette. Le ragioni sono tante. E invece per progetti come il nostro – molto focalizzati sull’obiettivo specifico – è fondamentale conoscere la visione globale per trovare ogni volta nuove motivazioni. Grazie al project coaching abbiamo avuto la consapevolezza di quanto l’azienda avesse investito sul progetto, e questo ha dato al mio team una carica inaspettata.

Ascolto, accettazione, fiducia

Già alla terza sessione ho notato un notevole cambiamento nella mentalità delle persone. Primo segnale: nonostante fossimo al 100% in smart working, eravamo tutti presenti al meeting. Poi, la nostra figura più junior ha preso la parola dicendo che avrebbe fatto fatica a rispettare una deadline. In tre si sono fatti avanti per aiutarla.

Stavamo cominciando a ragionare come un team e non solo come una sommatoria di individualità. L’ho notato anche nella libertà con cui le persone commentavano il lavoro degli altri anche senza avere skill specifiche su quell’ambito. Era cresciuta la voglia di ascoltare un altro punto di vista, di accettare il contributo dei colleghi e di fidarsi. La fiducia di potersi esprimere senza essere giudicati. Ma era cambiato anche il linguaggio. Le persone si esprimevano in modo diverso, all’interno di una relazione più aperta e integrata. L’IO aveva lasciato il campo al NOI.

Il progetto ha avuto successo, pur avendo dovuto affrontare ostacoli e difficoltà. Ma la cosa per me più gratificante è stato il feedback di un collega. Mi ha scritto dicendo “Nicole, quando partirà il Progetto mi farebbe piacere poterne far parte”. Dava il merito a me… La realtà è che tutti noi insieme avevamo fatto un “viaggio” ed eravamo cresciuti, anche grazie al project coaching.

(Photo by Nicholas Swanson on Unsplash)

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