C’è chi la considera solo un trend del momento e chi una scienza avanguardista che può offrire alle aziende un vero vantaggio competitivo. L’intelligenza emotiva è uno dei nuovi topic del mondo HR. Ne parliamo con Sergio Leonardi, associate partner Exeo certificato in IE.
Sergio, come mai in ambito HR si sente sempre più spesso parlare di intelligenza emotiva?
Stiamo entrando in una nuova era, quella dei knowledge worker, dei gruppi di lavoro, del coworking, del networking come competenza. La dimensione di team sta sostituendo quella dell’individuo e oggi, ancora più di ieri, oltre a funzionare con noi stessi dobbiamo funzionare insieme agli altri.
L’intelligenza emotiva rappresenta proprio questa capacità che ha una persona di riconoscere e gestire le proprie emozioni e quelle di chi gli sta intorno attraverso l’empatia, la motivazione, la consapevolezza, l’autocontrollo e le social skill. Chi può attingere da questa competenza può contare su un grande vantaggio competitivo, anche se svolge un lavoro dove utilizza prevalentemente le hard skill.
Questo processo si è accelerato con l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo?
Sì ma era già in corso, anche in virtù del contesto V.U.C.A. (Volatilità, Incertezza, Complessità e Ambiguità) che stavamo attraversando.
Oggi, questi aspetti sono amplificati dall’utilizzo degli strumenti digitali come call di lavoro, webinar, videoconferenze e piattaforme web di condivisione contenuti dove siamo continuamente chiamati a mettere in circolo la conoscenza. In questi ambienti anche le classiche gerarchie da ufficio si integrano con reti informali.
La leadership deve assumere nuove forme, più partecipative.
In un contesto del genere, saper gestire la propria intelligenza emotiva è assolutamente essenziale, anche per trovare nuove soluzioni, far emergere la creatività e generare valore per se stessi e per tutta l’organizzazione.
Se siamo capaci di utilizzare le nostre emozioni possiamo fare scelte migliori, ma… se io ti chiedessi che emozione stai provando in questo momento, cosa mi risponderesti?
Mmm… non saprei dare un nome a questa emozione.
Ecco, uno dei problemi è proprio quello che non conosciamo nemmeno i nomi delle nostre emozioni.
Sappiamo nominare quelle più basilari, come la paura o la rabbia, ma esiste tutto un ampio spettro di emozioni che non siamo abituati a chiamare in nessun modo. Se un’emozione la sai nominare puoi gestirla e navigarla, altrimenti diventa complesso.
Ognuno di noi ha una parte profonda da cui scaturiscono valori, pregiudizi, comportamenti. Come in un iceberg questa parte rimane nascosta ma invece è grande e potente. Conoscerla meglio può aiutarci a capire come funzioniamo e a prendere decisioni migliori sia nella vita privata che sul lavoro.
Le organizzazioni sono consapevoli del valore aggiunto dell’intelligenza emotiva?
Iniziano a capirne l’importanza. Capiscono che il talento delle persone viene inibito se si lavora all’interno di un contesto tossico con conflitti sommersi.
La capacità di un team di lavorare insieme non dipende solo dalla sommatoria dei QI ma anche dal QE, il quoziente emozionale che fa sì che il gruppo lavori in maniera armoniosa con interazioni sane. Un aspetto fondamentale per sfruttare a pieno il talento e produrre creatività e innovazione.
Le aziende oggi fanno indagini di clima ma, se i risultati sono negativi, pochissime realtà hanno a disposizione le strategie per poter riportare la “temperatura” a un livello positivo. E invece avere un ottimo clima aziendale è diventato un vantaggio competitivo incredibile per attirare e trattenere i talenti.
Anche in questo ambito l’intelligenza emotiva può essere uno strumento importante.
Cosa rispondi a quelli che pensano sia solo una moda?
Non è una moda semplicemente perché è funzionale alle performance.
Ci sono studi internazionali che dimostrano come lavorare sull’intelligenza emotiva sia un boost per la crescita del business. Ad esempio nel mondo sales, assumere persone particolarmente dotate di intelligenza emotiva favorisce le vendite, perché sapranno gestire meglio la relazione col cliente, capaci di sviluppare reti informali più solide, più adatti a risolvere problemi improvvisi.
Le aziende che utilizzano strumenti di intelligenza emotiva hanno un turnover più basso e possono contare su persone più motivate e produttive.
Circa il 70% delle resistenze ai processi di cambiamento viene dalle persone e non da limiti tecnici o tecnologici. Quasi il 50% dei dipendenti che lavorano in azienda non è motivato. In molto casi le dimissioni sono riconducibili a temi di leadership e cultura organizzativa.
Dati che fanno riflettere e che ci fanno capire come mai adesso le aziende cerchino una scienza avanguardista per mettersi al riparo da questi scenari. L’intelligenza emotiva non è una moda perché se le emozioni guidano le persone, le emozioni guidano anche le performance.
In Italia si fa ancora fatica a considerarla una scienza. Perché?
L’intelligenza emotiva è arrivata in Italia circa 30 anni fa con la letteratura e in particolare con i libri di Goleman. È una scienza giovane e nel nostro Paese si fa fatica a legarla all’ambito business, anche per ragioni culturali.
Ma è solo una questione di tempo. In altri Paesi l’intelligenza emotiva sta entrando nelle scuole e nelle università perché in futuro ciò che farà la differenza sarà la capacità di usare le competenze acquisite in tutti gli ambiti sia personali che lavorativi.
Comunque l’altro giorno una amica del mondo HR mi ha detto che in azienda stavano facendo una “indagine di sentimento”. Simbolo che anche in Italia qualcosa si sta muovendo, a partire dalla costruzione di un nuovo linguaggio.
(Photo by Jason Goodman on Unsplash)